Rispondere, ovviamente, non è affatto facile.
Prendendo in considerazione il West Texas Intermediate, (particolare tipo di petrolio utilizzato come benchmark dell’andamento del greggio sul mercato dei futures), possiamo notare come, in questi due ultimi anni, non sia cresciuto mai oltre i 90 dollari al barile, ben al di sotto, dunque, dei 147 dollari del periodo pre-crisi. Addirittura la soglia psicologica dei 100 dollari si sarebbe vista, l’ultima volta, giusto prima del crack Lehman Brothers.
Da allora, come si è potuto osservare giornalmente, le quotazioni del petrolio si sono assestate, stabilmente, su una cifra compresa tra i 70 e gli 80 dollari.
Si è assistito, dunque, ad un ritorno dell’equilibrio tra la domanda e l’offerta, irrimediabilmente perduto, alla vigilia della crisi, a causa di una domanda così elevata, specialmente proveniente dai paesi emergenti, alla quale i paesi OPEC non riuscivano a rispondere adeguatamente.
Durante la crisi, però, la domanda è calata considerevolmente, così come come sono aumentate le scorte, le riserve di emergenza di cui ogni nazione dispone per far fronte a periodi di magra, di instabilità politica od economica.
Tutto ciò, se non si dovessero verificare amare sorprese, potrebbe significare che, sul lungo periodo, potrebbe non vedersi un incremento consistente delle quotazioni del petrolio.
A smentire gli analisti, però, giungono i dati. Sul finire del 2010, e non si vede perché mai si dovrebbe assistere ad un’inversione di tendenza, i prezzi hanno navigato, per lungo tempo, in zona 90 dollari al barile, complice, soprattutto, la rinnovata vitalità dei paesi emergenti.